di Alessio Less
Se noi ci addentrassimo nella discussione tendente a definire cosa è la poesia e quindi chi è poeta,
ci inoltreremmo in una disputa probabilmente senza fine e senza risultato.
Consideriamo pertanto poeti coloro che ci hanno tramandato e oggi compongono opere in versi e che la cultura dell’ambiente in cui vivono considera “poeti”. Tale definizione è certamente ambigua ed accettabile con molte riserve, ma osserviamo che per l’Italia colta del secolo diciannovesimo fu grande poeta il Prati; per gli abitanti di Val di Gresta e dintorni, dialettofoni, fu considerato poeta Giacomo Mazzucchi, detto Giacomara, che scrisse versi dialettali “rustici” alla fine dell’800 e nei primi decenni del ‘900.
Vi furono in passato poeti a Mori? Certamente vi furono molti uomini illustri nel campo del diritto e delle lettere nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, come G. Battista Salvadori (1745-1807) che probabilmente scrisse anche composizioni poetiche; Valeriano Malfatti, vissuto alla fine del’700 ma non sicuramente di Mori, scrisse diverse poesie, come Gio. Maria Lupatini, vissuto nei primi decenni del’800; il più importante di questi uomini di legge e di cultura fu l’avvocato Gio.Battista Tranquillini, che operò fra la fine del’700 ed i primi dell’800.
Il personaggio più rilevante per tutte le arti e quindi anche per la poesia nel Basso trentino, poiché fu mecenate ed egli stesso uomo di cultura, compositore di musica e probabilmente di versi, fu il conte Cesare di Castelbarco Visconti, vissuto dal 1782 al 1860.
Nel corso dell’Ottocento troviamo altri letterati della borgata che scrivono anche versi; fra questi ricordiamo Maria Salvotti (1821-1843) probabilmente proveniente dalla nota famiglia baronale di Mori Vecchio; e soprattutto Scipione Salvotti, figlio del consigliere aulico Antonio, vissuto dal 1830 al 1883, uomo di cultura e scrittore, nonché poeta. Doveroso ricordare anche Bartolomeo Malfatti (1828 – 1892) insigne poligrafo, storico e letterato; egli fu anche studioso dei dialetti trentini .Lo stesso Gustavo Modena, che non fu solo attore, ma anche scrittore, certamente compose versi, magari d’occasione .a noi non giunti, e che egli stesso recitò.
Sulla scia di questi letterati troviamo alcuni membri della famiglia Vittori di Manzano, fra cui Mariano e Giovanni, ma soprattutto il più famso Vittore Vittori, vissuto nella seconda metà dell’800 e che venne soprannominato “Il bardo trentino” fu infatti molto noto ai suoi tempi ed oggi è ingiustamente dimenticato. Ecco una sua poesia ambientata in Val di Gresta:
Crepuscolo d’autunno
Romba per l’erta china
Il rio Gresta, e livido spumeggia;
ne l’aria vespertina
s’addorme il Baldo e svegliasi la greggia;
latra un mastino giù nell’ima valle,
trilla un piffero gaio a un colle in vetta,
mugghian le vacche a le fumanti stalle,
e il passero cinguetta
là del grigio molin dietro le spalle
Ivi, stretto il fucile,
lo sguardo intento, il cacciator s’appiatta:
con volteggio gentile
sgattaiolando vien l’agil lepratta;
passa di contadine allegra schiera,
cantan ridenti una canzon gioconda;
scintilla il sol sovra la chioma nera,
su la guancia pienotta e rubiconda.
Ricordiamo infine Lionello Fiumi nato nel 1894 e credo deceduto negli anni ’80, la cui famiglia era originario di Mori: egli ha scritto 8 importanti raccolte di versi, fra cui una lirica dedicata a Monte Albano. Anche se poco noto il Fiumi è considerato una dei grandi poeti italiani recenti .
Fra i poeti vissuti e deceduti in epoca recente e fra quelli che hanno scritto preferibilmente, ma non solo, in dialetto, ricordiamo anzitutto Alfonso Finotti, nato nel 1868 a Valle San Felice ed ivi morto nel 1930. Scrisse fra l’altro il poemetto dialettale “El Zapatera” conosciuto ed appreso a memoria da generazioni di contadini trentini:
Ecco alcuni versi del celebre “Lamento” scritto in settenari rustici:
El Zapatera
Se per sort me zuzedès
che n’altra volta mi nasès,
me pupà ‘l pol ben dir su
ma ‘l zapatera no ‘l fago pu.
Oh! miserabil condiziom,
ghe n’è altre profesiom?
Ma ormai che som sul bal
bisogn che bala bem o mal.
E adès che som veciòt
ghe penso su qualche pezòt,
voria trovarla la maniera
per non fa el zapatera.
(Poi continua a lamentarsi; espone le sue miserie e fa paragoni con altre professioni: sarebbe stato meglio fare addirittura il frate, ma è tardi ….)
El sol che scota sul copim,
oh infelize contadim;
col fazòl entabacà
me som el mus ‘npò sugà.
Se sta bem anca coi frai
ma massa tardi l’è ormai
Quela si l’è la maniera
per no far el zapatera.
(E le donne! Quanto soffrono e sono in ansia per le “galete”?)
Lì dal temp de le galete
le se desta ste donete
le vegn zo tant deformae
che par fascine mal ligàe;
e se ‘l corpo stes lì sòdo
el par n’abit tacà a ‘n ciodo.
Le galete a tre corone
le va digàant ste pòre done;
a no farne l’è ‘n pecà
en farente? no se sa!
(Verso la fine con orgoglio ma con ancor più amarezza per la sua condizione afferma:)
Che mantegn anca i siori
l’è ‘l vilam coi so sudori,
se non ghe fus el vilam
i crepa tuti da la fam.
Abitava a Valle S. Felice anche un certo Terzi di Pannone, che ci ha lasciato dei versi; ed era di tale paese Placido Girardelli che ha pubblicato la raccolta “Liberi Sensi” nel 1965.
Merita una citazione Enrico Less (1897 – 1982) che fra le sue molteplici attività fu anche cultore e promotore del dialetto, in rapporto con Lionello Groff; scrisse molte poesie, però nel dialetto della città di Trento; possiamo infine definirlo un propulsore o incentivatore della cultura e della poesia dialettale locale.
Ricordiamo ancora di Valle S. felice, Luigi Gentili, che ha descritto nelle sue belle poesie i suoi ricordi e gli avvenimenti del suo tempo, ed a Mori Vigilio Ferraris (Considerato nei decenni scorsi l’unico poeta dialettale moriano).
Molti altri probabilmente hanno scritto in passato a Mori versi in italiano o in dialetto e molti sono coloro che oggi scrivono poesie nel nostro comune. Di questi ricordiamo ora solo Cirillo Gelmini. Egli è l’ultimo rappresentante della poesia dialettale, che noi abbiamo chiamata “rustica” e che altri preferiscono chiamare naif. Essa nasceva spontanea in talune occasioni della vita di un tempo: penso al filò, al raccolto, a certe feste come l’Epifania o il Carnevale; ed anche in occasione di evenienze tristi o drammatiche: penso all’esodo nella prima guerra mondiale o agli stessi canti di guerra. I poeti erano coloro che per così dire coagulavano ed esprimevano il sentire popolare; secondo la tradizione; possedevano quella particolare intelligenza, che permette di cogliere alcuni aspetti della realtà e della vita.
(di Gianfranco Arlanch)
El campanil che gavem da sti ani
no l’è pù quel, la cambià l’espressiom,
adess l’è tut bianc netà dai malani
che i tempi passadi i ha lassà de campion...
(di Gianfranco Arlanch)
Me par sia vegnù ‘l temp,carissimi moriani,
de dir quatro parole ancora sula piazza
quel monument de prea a sassi pur nostrani
che ha tapezà ‘l nòss “centro” coi. segni de ogni razza...
(di Gianfranco Arlanch)
Ancoi, en di de Luio col calt che brusa fora,
per star ancor pù mal me sento anca ‘m magon
disente en grop en gola,vegnù fora a bonora
quando ho vist la piazza ‘n de na desolaziom...
(di Gianfranco Arlanch)
E’ giusto passà n’am da l’ultima poesia
scrita sula piazza pù granda che ghè a Mori,
n’am che è na via ‘m prèssia,come passa via el temp
de la me età,dei poreti e anca dei siori...
Campanil dela piazza pù vècia de Mori
che col nar dei ani te sei rot e sbregà,
te ai vist tante storie, ombre e slusori,
che ha seguì per i sècoi sta Comunità...
L’altro di a le quatro ghè sta ‘n funeral
de ‘m medico de Mori, dotor Amedeo Bettini,
dotor de ‘n vècio stamp, che combateva el mal
co l’Arte e con el cor usà senza confini...
(Di Lionello Fiumi)
Solitaria, quella chiesetta, appesa
come un ingenuo ex voto, allo scheggione
ranciato. Vi giungemmo. Il pio silenzio
era tutto per noi.
E ci parve che il Cristo, più che un tempio
fastoso d’ori e d’organi...
Quando adèss passo da Lòpi
vizim a quela landa desèrta e desolada
che na volta pareva en tòc
de ziel encastrà dentro la tèra,
me vègn adòss vèci ricòrdi
trovadi en la memoria.
Anima canta che na serenada
sto bèl dòss el la merita dassem
adèss che la luna sora ai monti la è levada
e qualche stela eluse nel serem.
“Madona”: na parola che se sente
tante volte su la boca de la zent:
come biastema stupida e incivile,
o cossi tanto per dir, anca per gnent.
I. Luni ai tre de sto febrar
Alla fera ho volest nar
Tant ho vist e tant godù
Che mi mai avrìa credù
De veder come ancoi
Tante vache e tanti boi.
Tanto antica
da ingannare la mia memoria
alla base di un muro screpolato
la fontana della Rosina sul Forno
zampilla ancora.
L’è tant che ghe penso al me paès
en do som nata endove che ò passà
i pu bei ani de la me infanzia
doveria tornarghe pu de spes
a trovàr i parenti e a vardàr
en tuti sti ani i cambiamenti….
Mi son lontana, però ‘l penso lostès.
Tanto antica
da ingannare la mia memoria
alla base di un muro screpolato
la fontana della Rosina sul Forno
zampilla ancora.
Gianfranco Arlanch
Gianfranco Arlanch è nato a Mori nel 1935.
Giovanissimo studente è allievo del pittore prof. Piero Coelli di Rovereto e da lui apprende i primi insegnamenti di pittura ad olio e all'acquerello.
Nel 1952 conosce il Maestro futurista Fortunato Depero e ne ottiene un incoraggiamento sulla strada dell'Arte.
Frequenta corsi di formazione artistica. Espone in molte mostre d'arte personali e collettive in Provincia e fuori.
Nell'anno 1968 incontra il poeta dialettale Armando Cristoforetti, alias Nando da Ala, e con lui recita in molti centri della Vallagarina assieme ai roveretani C. Visintainer e A. Bruschetti.
Nando muore nell'inverno del 1975, il sodalizio si scioglie.
Nel 1982 pubblica il suo primo libro di poesie dialettali intitolato ARIA DE MONTALBAN in omaggio alla sua terra moriana.
Nel 1985 si iscrive al Gruppo di Poesia '83 fondato da A. Bruschetti.
Nel 1980 su iniziativa di amici partecipa al "Premio Triveneto di Poesia dialettale per Autori organizzata dall'Accademia Catulliana di Verona e vince il secondo premio, medaglia d'argento.
Nel 1990, conseguito il pensionamento, diventa presidente del Circolo Cittadino Pensionati di Mori e vi rimane in carica fino alla fine del 2002.
Per il Circolo scrive una cinquantina di ricerche storico-culturali.Pubblica sulla Rivista Culturale di Ala "I Quattro Vicariati" nel 1995 una serie di ricerche di Storia Medievale sulla località di Loppio.
E' presente in due pubblicazioni antologiche del Gruppo '83 e della prima Antologia, 1995, di cui disegna anche la copertina.
Nel dicembre 2002 partecipa alla "Maratona di lettura" per il Guinness dei primati, recitando sue poesie, in occasione dell'apertura della nuova Bibblioteca Comunale di Rovereto.
Sempre in dicembre pubblica il seguente libretto con poesie di benevola satira in occasione della ricostruita Piazza Cal di Ponte di Mori.
Cirillo Gelmini
E’ nato a Mori nel 1905. Scrisse poesie per molti anni nel dialetto di Mori con vena spontanea e personale, di prevalenza impostate sul suo paese e sul mondo contadino da cui proviene. La sua poesia di sapore naif è quasi priva di canoni stilistici ma il ritmo è sempre presente portandolo alla personale visione del mondo in cui affonda le radici.
Angelo Bellini
E’ nato a Mori nel 1931. Scrive poesie con sensibilità e vena spontanea sui suoi ricordi ed esperienze. Si affaccia timidamente al pubblico per un contatto cordiale e sincero “dipingendo” un quadretto in poesia del suo paese natale.
Giuliano Moscatelli
E’ nato a Mori 1942: Scrive solo poesie in italiano dal 1988. Le sue liriche, corpose e colorate, trasportano a descrizioni e stati d’animo per raccontare con personali visioni momenti del nostro tempo e della quotidiana fatica di vivere.
Elena Tranquillini
E’ nata a Mori nel 1927. Scrive poesie nel dialetto locale rivelando una vena descrittiva arguta e nostalgica nello stesso tempo, sul mondo agreste in cui è vissuta e non disdegna di ricordare.
Giuseppe Marocchi
Originario delle Val Giudicarie (Lomaso) dove è nato nel 1933, è moriano d’elezione: Dirigente in pensione del mondo della Cooperazione si dedica ab immemorabili alla pittura (impressionismo e realismo) e alla poesia. Suoi lavori sono stati pubblicati da I 4 Vicariati e da varie riviste. Scrive sia in italiano che in dialetto, ma preferisce il primo per tenere meglio esercitata la sua vena ironica.
Iginio Gentili
Da Valle S. Felice, autore di una straordinaria traduzione dei Salmi del Signoredio nel dialetto di Val di Gresta, fra i quali presentiamo il salmo 23, che tutti conosciamo e cantiamo in chiesa.
Signoredio, te sei ‘l me pastor
canto a ti la me fiducia!
El Signoredio l’è ‘l me pastor:no g’ò bisogn de gnente!
Lù ‘l me fa spolsar en pascoi de erba fresca;
el me mena ‘n de gh’è acqua bona.
El Signoredio ‘l me dà forza.
Perché mi loda ‘l so Nome,
el me mena per senteri giusti.
Anca se doves passar per val stròve,
no g’averia paura, perché ti te sei chi con mi!
El to bastom da pastore el me far star tranquillo.
Soto i oci de quei che la ga con mi
ti te me prepari la taola.
Te me onzi la testa col profumo,
el me bicier l’è sempre piem!
La to bontà e ‘l to amor i me compagna.
Viverò ‘n dela casa del Signoredio
per en mucio de ani!
SALMO 131
Signoredio, con ti som tranquillo!
Signoredio, el me cor nol gà nessuna ambizìom,
i me oci no i varda pu massa alt.
No zerco robe grande,
pu grande de le me forze.
Enveze som tranquillo e serèm,
come ‘n popo ‘n braz a so mama.
Come ‘n popo ‘n braz a so mama
som tranquilo.
Voi de Israele, fideve del Signoredio,
ades e per sempre!
La vècia fontana de Mori Vècio
di Angelo Bellini
La fontana dela piaza
la èra pròpri da vardar
baterla zo no se doveva
per el valor che la gaveva
Na matina el campanil arent
el ghe diss a la fontana
“Varda ho vist arivar zent
e non penso i voia gnent”
“ Mi, no vorìa sbaliarme
ma l’è na comission de sei
e i è drio a tor misure
per scalzarte for dai pei”.
“I ho visti” ghe diss la fontana,
“ma me par sia bona zent,
mi pertant no gò paura
che de mal no gò fat gnent”.
“ Anzi, penso de aver fat del bem,
ho aiutà tante donete
e te digo za che ghe sem
le ma batù cole strazzete”
“Mi ho vist lavar la dòte
dele spose e putelòte,
ho vist anca i panisèi
dei so picoi nevodèi”.
“Quando i omeni de lore
I vegniva da laorar,
no i troveva la so dòna
perché l’èra chi a lavar”.
“Quando lore se troveva
chi vizine una per una
le se feva confidenze
da non dir fora a nessuna”.
“ Ma le alzeva ‘m po la voze
se no passeva arent nessun
tant che quasi i le sentiva
‘n tuta l’area del comun”.
Ma ‘m bel dì i è arivadi
quei mandai dal podestà,
col carèt e coi atrezzi
la fontana i ha desfà.
E ormai de quela vasca
gnanca ‘n tòc n’è restà,
resta sol qualche ricordo
nele done che ha lavà.
Il commediante
di Giuseppe Maino (Carneade)
Ti ferma nelle prove generale,
ti dice: adesso cambia l’espression,
temperamento più slancio più passione
ecco il teorema che devi ora adottar.
Il nervo teso, la fronte corrucciata,
lo sguardo fermo per quella convinzione
d’un riviver veloce l’emozione
di quel frammento dell’arte popolar.
E’ lui che dà il comando e anche la rotta
nel mare immenso di raccontar la vita,
le situazioni più varie approfondite
con fantasia, successo e umanità.
La prova avanza e la soddisfazione
d’un “bravo” a piena voce ti stupisce,
e tu continui a macinar fatica
dando quel segno che aspetta con tremor.
Fronte aggrottata; ferma la compagnia,
or spiega a piena voce il suo voler,
e quel ripetersi lungo ‘in temporale’
turba l’artista che infatti ora sta male.
Un urlo squarcia quel silenzio cupo
or senti quei consigli inaspettati,
quindi il fermarsi: e porgere le scuse
or zucchera i tormenti e le sue accuse.
Poi, siede, osserva e cerca d’eclissarsi
da quel discorso che avanza a fatica,
esce di scena per dare il giusto modo
a chi fatica di avere il giusto sfogo.
Quindi ritorna: e qui la sta magìa,
riprova quelle scene esasperate,
tutto cammina con facilità
soddisfazione di chi imprecava già.
Non è da molti aver quel dono immenso
di sacrificio e gran temperamento,
noi lo apprezziamo e qui rendiamo onore
a chi usa l’arte nel metodo migliore.
Ricordi de Mori Vècio
di Elena Tranquillini
Quando ero picola domandevo a me mama
perché ‘l campanil l’è cossì destacà
dala cesa e me pòra mama la me diseva
chel’èra perché i aveva begà.
Me par de riveder la vècia fontana
che ghèra ‘n la piazza, per nar a lavar,
alor nevo de spess e stevo lì ore
per parlar coi putèi che passeva col car.
L’èra i ani pù bèi dela me zoventù
e corer, saltar, no l’èra en strapaz
no ero mai stufa de nar a balar
e cantar cole amiche soto al vècio Palaz.
Soto al vècio Palz dei siori baroni
se feva filò ne le sere de istà
finchè le campane a bòti e botoni
le feva capir de nar tuti a so ca’.
La zerla su le spale
di Alberta Francesconi
Apena bona de caminar
e zà su le spale la zèrla
che dì dopo dì
ò quasi ‘mpienì
dei veci ricordi
che no se sbiaviss,
rimpianti che no’ vol finir,
robe bèle duràe massa poc
e quele brute con zento raiss.
Co’ ‘na mam
ò rebaltà la zèrla
e ò trovà …
‘na strucà de òcio
el primo baso d’amor, ancora dolz,
en sass consumà,
‘na ciòrciola col saor de pim
en bandom de lagrime,
‘na cartolina ormai zalda,
i petài d’en fior ross
come tocheti dè cor…
Caro el me fardèl
fat de robe che no serve a nissum.
Ma per mì tacàe tute a um
l’è…. La me vita.
La sorgente dei signori
di Cirillo Gelmini
Quando dalle sorgenti
De S. Antoni e dei signori
L’acqua la vegniva a Mori
Con de’n totale de 93 litri al minut secont
E con de na dureza calcarea de 15 gradi francesi.
Se podeva beverla la sera e anca la mattina
Perché l’era acqua genuina.
Le lavatrici e i feri da stirar
I dureva tanti anni e tante stagiom
Senza farghe riparaziom,
Questa l’era la situaziom.
L’acqua de Linar la ga durezza 40 gradi francesi
Così i filtri delle lavatrici
Lava stoviglie e feri da stirar
I è sempre da riparar
E chi el che le deve pagar?
L’Ente pubblico ‘l deve pagar i danni
Provocai dalla galleria Adige-Gartda
E per rimediar el lac del Lopi
Se deve recuperar,
Per recuoperar le sortive
Per farle deventar vive
per nar a noar
per nar a patinar e pescar
quella de S.Antoni
e quella dei Signori
Così l’acqua la vem ancora a Mori.
El mondo cambià
di Gianfranco Arlanch (da “Foghi de paia”)
Ma varda che mondo
che è vegnù fora
e ‘ndo no ghè paze
ne ghè pù na stagiom
che sa de magìa
come na volta.
Nessum ga pù temp da trar via.
No ghè pù quele case
enfogade l’istà
e frede l’inverno
che pu che lonc
el pareva eterno.
No ghè pù le campagne
i la quertae de cimento
per far condomini
vegnui su come i fonghi.
No ghè pu le fontane
‘ndo beveva le bèstie
che vegniva dai campi
strache come i omeni la sera.
Ghè poca voia de devoziom
che l’èra speranza
de’n domam pù sicur.
No i diss pù rogaziom
per far contro la suta
o la tempesta l’istà
perché tut l’è za programà.
Gavèm zento machine
per far mem fadiga.
Gavèm i vestiti fati a misura.
Gavèm la moda per tuti sicura.
Gavèm la vetura
per girar dapertut
con ogni temp
col sol e col brut.
Nessun punto del mondo
adèss l’è massa lontam
gavèm anca la luna
a portada de mam.
No ne ocor pù la legna
ghèm el gas che fa tut.
No ne ocor pù far le scale
i ha ‘nventà l’assensor.
Per saver le notizie
ghè ‘l televisor
che ne porta ‘n cosina,
en camera, en lèt,
le notizie del mondo
en lingua e n’ dialèt.
Me trovo a pensar
che forse da sempre
l’òm el sogneva ste comodità
per na vita pù bela, pù sana,
de lussi e caprizi.
Chissà che nol trova
anca ‘l modo de esser felizi!
Il potere, male antico
di G.M. (Giuseppe Marocchi)
Fu per divino volere che dal nulla
Il mondo prese forma, quindi nacque,
l’uom invece fango ebbe come culla
poi fu re della Terra e dell’acque.
Primo suo peccato fu la ribellione,
me se vogliamo addentro ben guardare,
alla radice del suo mal c’è confusione
perché fu l’uom che volle comandare.
Cosi fu di Caino il grand delitto,
uccise per invidia suo fratello,
si disse che al fumo vada iscritto
la ragione dell’orribile flagello.
Ma se lasciamo un poco i nostri avi
e ci portiamo a fatti più recenti,
i primi che il mar solcarono con navi
divennero di fatto i più potenti.
Allor parlar dovremo degli Egizi,
per non dimenticarci dei Romani,
la Storia mai fu per i novizi
ma fu per chi ne aveva a piene mani.
Di morti si parlò nei tempi andati,
come di conquiste e gran trofei,
i guerrieri come dei furono amati,
acclamati nelle feste e nei tornei.
Da Nerone ai giorni nostri poi ci fu
il mito ch’oggi val per i tiranni,
siam civili, non c’è più la schiavitù
trattati però siam come Normanni.
I potenti di uno stato, come il nostro,
son i Prodi, son gli Agnelli, i Benedetti,
manca solo qualche raro Paternostro
per capire quali sono gli angioletti.
Tratto da “El Campanò de San Giuseppe “ anno 1992 stampato da “ La Grafica Mori (TN) “
...LO SAPEVI CHE?
Monte Albano è stata una zona abitata e frequentata dal periodo del bronzo. Sono state trovate tracce della civiltà del bronzo (1900-1500 a.C.). L'abitato apparteneva alla cultura dei castellieri trentini; l'intera zona era costituita da altre alture, che davano vita ad altri castellieri: quella del Santuario, del Castello e del Doss Mota. A causa dell'aumento della popolazione, l'abitato venne ampliato ai piedi del Monte Albano. Lungo la Valle dell'Adige sorgono i "Pipel", rocce di forma conica, alle quali venivano attribuiti un'anima possente e divina. Accanto a queste pietre sacre sorgevano i villaggi come a Corno presso il Pipel di Tierno e l'abitato di Monte Albano, presso il Pipel di Mori Vecchio.